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Pubblico impiego e licenziamento illegittimo – Risarcimento e pensione

Corte di appello di Bologna, sezione lavoro, 16 novembre 2016, n. 1060 (caso patrocinato da L. Righi e I. Di Passio)
Pubblico impiego e licenziamento illegittimo – Risarcimento e pensione
Corte di appello di Bologna, sezione lavoro, 16 novembre 2016, n. 1060 (caso patrocinato da L. Righi e I. Di Passio) 

A

“Nel caso di licenziamento illegittimo del dirigente pubblico che nelle more del giudizio intrapreso per contestarlo abbia raggiunto l’età massima per il mantenimento in servizio – non potendo quindi essere reintegrato – e si sia pensionato, gli importi percepiti a titolo di pensione non possono essere <compensati> con quelli – da commisurare alla retribuzione globale di fatto per tutto il periodo dalla data del licenziamento a quella del raggiungimento del limite di età per il trattenimento in servizio – dovuti dall’Ente datore di lavoro a titolo risarcitorio al dipendente illegittimamente licenziato”


Corte di appello di Bologna, sezione lavoro, 16 novembre 2016, n. 1060 (caso patrocinato da L. Righi e I. Di Passio)

La lunghezza dei giudizi anche dinanzi ai Giudici del lavoro, nonostante la speciale disciplina del relativo processo che dovrebbe teoricamente assicurare la massima speditezza e che, come noto, è dal 1998 applicabile anche al pubblico impiego per effetto della sua c.d. “privatizzazione”, causa la necessità di affrontare problematiche particolari, connesse all’intersecarsi degli effetti della sentenza con gli accadimenti nel frattempo sopravvenuti. Nel caso di specie, una dirigente pubblica, cliente dello Studio legale RFA e difesa da Luca Righi e Iacopo di Passio, aveva ottenuto dalla Cassazione nel 2015 il riconoscimento definitivo della “nullità” del licenziamento irrogatole dall’Ente locale quasi dodici anni prima. La Suprema Corte, rilevato come la stessa non potesse essere riammessa in servizio avendo nel frattempo compiuto l’età massima, aveva rinviato alla Corte d’appello competente per territorio per stabilire la quantificazione del risarcimento del danno spettante alla dipendente per il licenziamento ingiustamente subito che, nelle more dei tre gradi di giudizio, l’aveva oltre tutto costretta, per ovvie esigenze alimentari in assenza dello stipendio e pur senza mai rinunciare al giudizio di impugnazione del licenziamento, a richiedere la pensione (oltre tutto integrando “di tasca propria” la contribuzione previdenziale, per raggiungere il minimo richiesto per godere del trattamento pensionistico). La Corte d’appello con la sentenza in epigrafe ha in primo luogo stabilito il diritto della dirigente ad un risarcimento commisurato alla “retribuzione globale di fatto [comprensiva degli aggiornamenti contrattuali intervenuti]  dal licenziamento … al raggiungimento dell’età massima per il collocamento a riposo” (ovvero i 65 anni, compiuti nel 2014), in tal modo rigettando le tesi dell’Ente datore di lavoro che avrebbe voluto limitare il risarcimento al momento del “pensionamento volontario” che era stato richiesto richiesto dall’interessata nel 2006 per poter supplire con la pensione alla mancanza di altre fonti di sostentamento in costanza di licenziamento. Allo stesso tempo, in accoglimento delle tesi sostenute dai legali dello Studio RFA, la Corte d’appello ha rigettato la richiesta dell’Ente di diminuire tali importi “compensandoli” con quelli percepiti dall’interessata nello stesso periodo a titolo di pensione, che, i nquanto eventualmente recuperabili dall’INPS come “indebito oggettivo”, “non sono includibili nel principio della <compensatio lucri cum damno> e, conseguentemente, nell’alveo dell'<aliunde perceptum> configurato dal diritto vivente”. (L.R.)